Di quando ho fatto pace con Lars von Trier e di Giacomo Puccini per spiegare la vita

Tutto è iniziato, e finito, con Dancer in the dark.
C’è Bjork, che fa l’operaia ceca quasi cieca – eh – che ha un figlio ceco quasi cieco – la smetto – e allora lavora, lavora, lavora per farlo curare.
Il tutto negli Stati Uniti dove lei è immigrata e vive in una roulotte.
Un tizio le ruba i risparmi, lei li rivuole ma lui le dice no anzi fai una cosa uccidimi ché sono pieno di debiti ma non voglio dire niente a mia moglie.
Lei lo uccide e ovviamente finisce in prigione, siccome è deficiente non racconta il furto e così, senza attenuanti, la condannano a morte per impiccagione, e la impiccano, e ce lo fanno vedere.

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Un film triste, pesissimo come von Trier solo sa fare. Che pure sarebbe sopportabile se non ci fosse Bjork a cantare per tutto il tempo, portando il livello di grottesco e d’ansia a millemila miliardi.

Lei canta: non vede un tubo, va in bici in tondo e canta; la vita fa sempre più schifo e canta, ma non è Pollyanna: lei canta con una naturalezza che puoi accettare e concedere soltanto nell’opera lirica.

Io amo l’opera e accetto che Cavaradossi o Mimì muoiano cantando – sì, mi piace Puccini – e mi commuovo pure, ma al cinema lo stesso accordo muto difficilmente si può stringere e allora che sia muto, il coro – lo so – quando le cose si fanno più dolorose, e smetta Bjork di squittire.

Invece no: lei canta, a modo suo, e il film diventa ancora più peso e siccome quello è stato il mio primo, di Lars von Trier, dopo non ce ne sono stati altri per lungo tempo.

Poi ci ho riprovato.
Avevo deciso di vedere tutti i film di Dogma 95: camera a mano, niente effetti speciali, niente musica… ovviamente mi son scocciata al secondo film, Idioti, proprio del nostro Lars.

Però Festen, dogma #1 di un tizio danese che si chiama Vintenberg è parecchio bello e pure Idioti è quasi geniale, devo ammettere… ma una ragazza ha bisogno di una colonna sonora, ogni tanto.
Dice: e allora beviti Bjork!
No.

Comunque, con Idioti non è stato amore ma con Antichrist è stato l’inizio di una profonda amicizia e con Melancholia non nascondo un certo desiderio di giacere insieme, col film proprio, non con von Trier che sembra l’orso Yoghi.

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In Antichrist non canta nessuno ma ci sono Willem Dafoe e Charlotte Gainsbourg che scopano fortissimo e intanto il figlio si arrampica fuori dalla culla, apre la finestra e si sporge a guardare i mille comignoli fumare nei cieli bigi – non credo sia Parigi – fino a cascare giù.

Ovviamente è un film sul lutto e sul senso di colpa, sulle responsabilità, sull’accettazione del dolore.

Lui è psicoterapeuta e gli viene questa idea geniale di portarsi la moglie nella baita isolata per farle elaborare il lutto, curandola lui: cosa molto ortodossa ed evidentemente molto astuta.

Se il film inizia male, peggio finisce.

Ma è un film sull’essere uomo e sull’essere donna, sulle reazioni di cuori diversi a dolori uguali. Cuori con gli stessi diritti ma che non accettano doveri e che non parlano, non possono mai davvero comunicare, essere vicini, capirsi.

E non è il lutto, basta meno per non incontrarsi mai se non a letto, dove la biologia ci ha fatto per combaciare ma per soffrire lontani, lontanissimi, ci ha fatto il mondo.

Ecco, lì io e Lars abbiamo fatto pace.

Poi è arrivato Melancholia con una Kirsten Dunst pazzesca.

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Melancholia ha composto ogni dissidio e ha sancito anche la fine dei rapporti tra me e Lars, ché non potrà esserci un altro film così bello ma ho timore che possa arrivare invece un altro Dancer in the dark a farmi passare la fantasia.

Lasciarsi in inverno – cantavano alcuni – è come morire, e allora io lascio Lars nella nostra primavera, con la pellicola migliore.

Il film è pressoché diviso in due parti appiccicate insieme un po’ a sputo ma è evidente che i registi danesi sputano con ottima mira.

Cercando la trama in rete, leggerete di pianeti in collisione con la terra e distruzione del genere umano. In effetti c’è tutto e sta nella seconda parte del film.

Ma è all’inizio che ti innamori: c’è Kirsten Dunst che si è appena sposata e va al suo ricevimento di nozze e ti sembra felice ma poi, semplicemente, non lo è più.

E lo capisci subito che forse felice non è stata mai: sincera, onestissima nei brevi momenti d’allegria; incapace di mentire in quelli profondissimi di dolore.

Up e down talmente veri, talmente credibili da paralizzare lei e lo spettatore che si ricorda – come quando si mangia un biscottino a forma di conchiglia – di qualcosa di antico, capendo che sì: a volte succede, a volte ci si paralizza e non basta la razionalità altrui per muovere un solo passo con le proprie gambe.

E quel dolore lì, che è di una donna ma è universale, von Trier lo sa raccontare bene davvero.

È il dolore che impone una scelta all’Alfieri: tirannicidio o suicidio, solo che la vittima e il tiranno sei sempre tu, e questo è un problema.

Così arriva la seconda parte, quella che distrugge l’umanità. Sul serio.

Una catastrofe annunciata, cui non tutti credono. Così razionali, prodighi di consigli ma anche di giudizi davanti alla debolezza della nostra adorata, sono messi alla prova da qualcosa di più grande: la versione tangibile di ciò che la sposa Kirsten Dunst non può descrivere ma solo subire.

Se in Antichrist la distanza era tra i sessi, qui diventa tra umani: infinita e dolorosa a chiarire, più che mai, che quando si muore, si muore soli, come diceva uno che non è Puccini, e non serve nemmeno che il pianeta Melancholia si schianti sulla terra.

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