Di un film che doveva essere bruttissimo e poi invece no. Tornatore, La corrispondenza

Il proprietario di questo sito ama i giochi di parole e probabilmente saprebbe inventarsi qualcosa di meglio di “Tornato re?” come grande domanda per introdurre le mie ciance sul film di Giuseppe Tornatore.
Io, non senza una punta di imbarazzo per l’infelice calembour forzato, mi limiterò a rispondere al grande interrogativo, posto, più che da me, dalle infinite critiche negative che avevo letto prima di andare al cinema.
La risposta, se ci si sta chiedendo se il ritorno al cinema del regista sia stato grandioso, è no.

Ma è stato un disastro? Ancora una volta, la risposta è no.

Youth di Sorrentino mi aveva preannunciato un inverno di grandi promesse non mantenute e Irrational man di Allen l’ha confermato; quindi ero pronta a immense delusioni e a rimandare a settembre qualsiasi cosa sullo schermo.
La corrispondenza non è immenso, come invece era stato immenso, enorme, grandissimo La migliore offerta – e sono pronta ad ascoltare pazientemente ogni vostra opinione contraria in merito, mentre a mente starò ripetendo, uno a uno, tutti i grandi successi di Gianni Drudi – eppure i film brutti sono altri.
Questo è ciò che il film non è, ma a qualcuno piacerà sapere che cosa invece la pellicola sia.

Ormai, se vuoi un Oscar tocca che te lo vada a prendere, quindi i film è più facile farli già in inglese, con attori anglofoni. Io ho visto La corrispondenza doppiato in italiano e sono pronta a scommettere che questo abbia peggiorato molto le cose: non ho la conferma, eppure trovo improbabile che i toni degli attori fossero così da soap opera anche in originale.

Ma veniamo a quello che ho visto e sentito con queste proprie pupille e queste proprie orecchie.

C’è più o meno un inizio comune a quello del film di Woody Allen: una studentessa universitaria si innamora del suo carismatico professore di astrofisica e lui ci sta.
Anzi qui stanno direttamente già insieme e anzi che vagheggiare di filosofia vagheggiano di stelle, che pare non sia la stessa cosa.

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Lui è Jeremy Irons che recita per tutto il film col collo coperto come Piera degli Esposti e lei è una bella figa che si chiama Olga Kurylenko che più guardavo e più mi veniva in mente Joseph Gordon-Levitt con la parrucca, ma è un problema mio (che poi, comunque, gnam!).

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Stanno insieme per cinque minuti poi lui parte e sparisce, però si fa sentire per messaggi, come il didascalico titolo ci faceva intuire fin dalla fila al botteghino.
Diretta conseguenza della trama è la delusione che, sulle prime, ho provato verso la fotografia: pazzesca nei film precedenti, qui è stata dimenticata per concentrarsi sul piccolo e piccolissimo degli schermi di cellulari e laptop attraverso i quali scorrevano i messaggi. Ma forse, e ci penso ora mentre scrivo, la cosa era voluta: se ti concentri sullo schermino, tutto il resto passa in secondo piano.
All’inizio ti viene il sospetto che lei tutti i messaggi se li stia sognando, tanto son pieni di disegnetti e parole contratte che neanche nella Smemoranda di quando avevo quattordici anni trovavi cose così aberranti.
Ancora si trova la Smemoranda?
Comunque no, lei non si sogna niente ma non le tornano i conti ché quello le scrive, le manda i videomessaggi e pure i regali con Bartolini ma comunque non si fa trovare.
Invece viene fuori, ma si capiva quasi da subito, che lui è morto dopo lunga e penosa malattia e, più padre che compagno, ha messo su tutto un sistema di invii post-datati per non lasciarla mai sola: praticamente un impiegato outbound del call-center wind dislocato in Albania.
Insomma Tornatore ha abbracciato un po’ Black mirror ponendo il punto su quanto a lungo questa cosa possa durare ma lo ha fatto con un passo avanti, con quello stile giapponese del dare l’assurdo per consueto.
E quindi è come se la storia tra la bella pulzella e l’uomo di gran fascino continuasse, come se davvero comunicassero e si conoscessero meglio e crescesse l’amore… ma l’attrazione di una ragazza per uno più grande viene meno quando il fascino della maturità cede il posto alla fallibilità della vecchiaia ed è quello che inizia a succedere quando, nel film, lei riceve erroneamente un videomessaggio destinato al figlio di lui (naturalmente questo esistere oltre la morte lui lo sta portando avanti con tutti quelli che ama e di cui vuole prendersi cura) e poi man mano sarà la vita a dare misura alle cose.
Ciò che mi piace moltissimo di Tornatore è la china noir che ha scelto, trasformando questo genere piccolino in una forma epica potentissima, come è accaduto nel film precedente e, tempo addietro, ne La sconosciuta (a proposito: chi ancora non fosse diventato sordo con quelle due pellicole, avrà di che temere con la colonna sonora di questa, affidata a Morricone e sempre a volume altissimo), qui la debolezza sta nel voler incrociare alla trama principale un’altra tramina un po’ meh: dove la ragazza c’ha il trauma e il senso di colpa per un incidente d’auto avuto col padre nel quale quello è morto.
Però dentro c’è un piacevole gioco di contrasti per cui lei per pagarsi gli studi fa i film di esplosioni e colpi, dove muore ogni volta di morte violenta rischiando la pelle senza controfigura, come per punirsi di essere sopravvissuta quell’altra volta lì.

E quindi lei muore ogni giorno per finta e lui per finta ogni giorno vive e questo solo la delicatezza di Tornatore lo poteva raccontare.

La storia va avanti e poco importa come finisce ma il concetto su cui concentrarsi, perfetto nel contesto dell’amore tra due che studiano le galassie e ancora di più in termini assoluti, è quello di quanto possa durare la luce di una stella spenta che crediamo – cerchiamo – di vedere ancora… e no, non è il caso di questo film di Tornatore, ma è il caso di molti, moltissimi contesti della vita.

 

E quando vai, non illuderti di coltivare assenze. Te ne vai, e questo è tutto.

(V. Capossela, Non si muore tutte le mattine)

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