Sorryntino, non ci siamo capiti, ma è stato bello lo stesso

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Per parlare di Youth devo prendere la rincorsa e iniziare da This must be the place e ripassare su La grande bellezza (di cui già esiste un mio commento,
qui, che tuttora mi sembra sensato). Chiameremo questi tre film “LFA, La fase americana”, ovviamente in senso figurato molto più che geografico.

Sorrentino usa creare degli eroi. Eroi alla Ettore, forti e valorosi che sanno che butta male tutto intorno e che più che baciare il figlio prima di andarsene a morire non possono fare.

Sorrentino crea gli eroi che vorremmo essere.
NO, ANZI: crea gli eroi che siamo già convinti di essere.
I più consapevoli del circondario: nel nostro microcosmo siamo sempre quelli che hanno capito di più, che individuano il grottesco delle cose, che sentono la nota stonata mentre tutti fanno festa.
Coltiviamo questa piccola illusione, tremendamente ingenua, di essere gli unici capaci di guardare le cose da fuori, di mettere in pausa la realtà per descriverla e analizzarla, un passo avanti agli altri, quelli contenti di non si sa cosa.

E per noi non intendo l’umanità, contenta di non si sa cosa, ma solo quelli come me; che però hanno la sfortuna di non essere me.

Sorrentino costruisce questi uomini manifesto e quelli come me poi ci fanno le magliette, e poi non capiscono più dove finisca la loro pelle e dove inizi la Fruit of the loom a grammatura densa.

I personaggi, che nascono e muoiono in due ore e che mai hanno detto altro oltre a quello che era scritto sul copione, vengono investiti da tutte le aspirazioni di quelli come me: “Gep avrebbe fatto sicuramente così…” e racconti e interpretazioni inesistenti si sprecano e non parlano di Gep, Cheyenne, Fred e Mick… ma di noi stessi.

Quando quelli come me raccontano un film di Sorrentino, raccontano una forma idealizzata di sé e il film allora non lo sai se l’hanno visto davvero. Ci hanno voluto vedere la loro storia.

Due cose ci servono: contenuto e contenitore. In This must be the place erano potentissimi entrambi.
Il vuoto di dentro del personaggio era reso esteriore, misurato per chilometri dalle minuscole rotelline di un carrellino per la spesa prima e di un trolley poi.
La grande bellezza si è preso le sue critiche e se le è prese perché c’era l’afflato felliniano e le cose italiane che piacciono agli americani (di qui LFA).
E siccome non c’è niente come il bordello del circo grottesco della vita per far sentire quelli come me subito molto intelligenti, allora il mondo è pieno di quelli come me che adorano quel film.
E il fatto che gli americani pure premino l’Italia quando si autodenunzia e ammette tutti i suoi nani e ballerine, ecco dovrebbe far pensare, ma quelli come me vedono solo l’eroe che ha già pensato per tutti.

L’equilibrio tra contenuto e contenitore, necessariamente, è andato un po’ di là, verso il contenitore e le immagini potenti. Ma lo chiariva già il titolo: quella era una caccia al tesoro, nella quantità, alla qualità, alla grande bellezza.

Youth ha perso completamente di vista il contenuto, e ha esagerato col contenitore.
Le immagini potenti, un marchio di fabbrica di Sorrentino.
Il ritorno della maniacale simmetria, che temevo gabbia e invece superata e dilatata: da quella con asse centrale a quella da destra a sinistra, da sopra a sotto, dal primo al secondo piano tra un fotogramma e l’altro. I dettagli grevi al punto giusto come degli orrendi teli di spugna piegati a cigno.
Il ritorno di cose già belle in altri film come la musica che gira, dove sul giradischi Sorrentino mette direttamente le persone.
Una pulizia poetica che rende belli persino i termosifoni: struggenti posti dove appendere il cappello.
Un impatto che non delude mai e sei felice di quel bel contenitore. Ma è come vedere le diapositive delle vacanze di un altro, per quanto siano belle le foto, la vacanza non era la tua.

Pochi concetti, infilati qua e là a tentare di dare profondità a qualcosa che non ne aveva poi tanta: due uomini, nell’argento dell’ultima parte della vita, che guardano col distacco tipico di quelli come me, che sono sempre molto consapevoli, ciò che succede alle persone più giovani che hanno intorno.
Due vecchi così poco interessanti che dobbiamo fidarci quando ci viene detto che sono un grande regista e un grande direttore d’orchestra. Dobbiamo farcelo bastare per accettare che veramente veramente il film sia tutto lì.

Non privo di momenti banali e da vittoria facile come un’onirica direzione musicale delle mucche al pascolo, la pellicola sembra la parodia di un film di Sorrentino, come esistono quelle di Wes Anderson. Una wesandersonizzazione che a fatica passa inosservata quando il film è pure ambientato in un hotel.

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L’intero film si risolve, meglio che nelle due ore, nei due minuti in cui un mitologico Maradona, grasso ed esausto, vagheggia delle sue prodezze giovanili sul campo e quando gli viene chiesto a che cosa stia pensando, risponde “al futuro”. Una cosa minuscola ma così ben fatta e in equilibrio che ancor più ti fa sentire nostalgia di un film che sia vero cinema e non diapositive.

Ma quelli come me fanno fatica a dire che i contenuti non erano profondissimi, a non citare frasi “definitive”… e forse anch’io somiglio un po’ a quelli come me e allora aspetto il prossimo, perché mi son piaciuti tutti gli altri e perché non avevo mai fatto tanti complimenti a un film che non ho amato.

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