Accorsi e buoi dei paesi suoi

Parlare di questo film mi costa caro.
Ché se io avessi una reputazione, se fossi arbitro di buone visioni e buoni ascolti, tutto verrebbe messo in discussione da uno sproloquio che non potrà non citare, e in termini positivi, Radiofrecce e Jack Fruscianti.
Ché pure a essere post e anche post-post-ideologici, quelli, se ti piacciono ancora, son peccati veri, in ogni caso, e manco basta l’alibi dell’affettuosa fruizione giovanile.
Ma io una reputazione non ce l’ho, io sono quella con un debole per Massimo Ranieri e che guarda Sharknado con molta meno ironia e molta più attenzione di quanto si pensi, per non dire della mia passione per i film con Queen Latifah, quindi, forse, parlare di questo film non mi costerà un bel niente e anzi mi si dovrà pure il resto in monetine.

Inizierei dal titolo, orribile: Veloce come il vento, che nella migliore delle ipotesi ti fa pensare a un cartone animato Disney su un cavallo del maneggio che riconquista la sua libertà… e invece no, si parla di macchine.
Io di macchine non so un tubo ma posso dire con certezza che non è Formula 1, rally suppongo: qualcosa che diresti stiano correndo con le Y10 ma che invece sono macchine cazzute piene di cavalli, ma non quelli del maneggio della Disney.

C’è questo padre con figlia diciassettenne e figlio decenne, la mamma s’è data, c’ha pure un altro figlio che siccome è interpretato da Stefano Accorsi dovrebbe avere almeno quarant’anni.
La ragazza fa le gare con le automobili, il padre le fa manovra, il fratellino guarda e non ride mai, il fratello maggiore è un tossicodipendente che vive in una roulotte con una compagna e molti bong.

Il padre tira il calzino quasi subito e lei, la ragazza, che si chiama Giulia, rimane sola a cercare di vincere le gare, ma le serve uno che la prepari e arriva il fratello maggiore che prima dei viaggioni lisergici faceva quelli in macchina.

La convivenza è fallimentare e lo sai da subito; questo comunque non esclude che funzioni abbastanza perché lei faccia le scene di allenamento alla Rocky Balboa e quelle di vittoria, gara dopo gara, come Oronzo Canà.

L’urgenza di Giulia di vincere le gare viene dalla necessità di pagare i debiti lasciati dal padre (tra l’altro contratti per farle, le gare…), e con l’aiuto di Loris, un Accorsi magrissimo e coi capelli da troll delle patatine, la vittoria finale è davvero vicina, tanto che Giulia può rifiutare fieramente la proposta di estinguere ogni debito partecipando a un rally clandestino pericolosissimissimissimo.

Suddetta proposta arriva più o meno dopo 50 minuti di proiezione (su 119 totali), e capisci immediatamente che lei no ma alla fine il fratello sì, rischierà la pelle al posto suo.
Ma siccome il film è bello, i dialoghi hanno un ottimo ritmo, Accorsi è bravissimo, le scene di gara sono potenti e la musica trascinante, speri che no, che alla fine lui faccia la cosa giusta, segua la retta via, perché poi, in fondo, nella vita vera, che sia paura che sia buon senso, le scelte sbagliate sono l’eccezione.
Invece va proprio come ti aspettavi e dici ecco: mi muore Accorsi, adesso che ci eravamo ritrovati!

Ritrovati, hai detto?
Sì, io Stefano lo amavo dai tempi delle pubblicità del gelato, l’ho amato in qualsiasi pellicola fino al 2001, poi ha iniziato a Lavorare con Muccino (Muccino prima di Will Smith) e, come da un lungo coma, mi sono svegliata: ho notato per la prima volta l’attaccatura dei capelli alla Topolino e ho capito che sono più fedele alle folte chiome che agli attori stempiati.

mikiakkorsi

Capelli a parte, Accorsi mi piaceva davvero, ma Muccino me lo ha rotto e soltanto con L’arbitro, nel 2013, e un fichissimo servizio su Gentleman del 2015, ho capito che sono ancora come le cretine che sbavano per Santamaria: cretina anch’io e pronta a farmi scartare come un Maxibon.

Il film è ambientato quasi tutto in Emilia Romagna e quando Accorsi gioca in casa non c’è gara, manco rally, che tenga.
Accorsi e buoi dei paesi suoi, insomma: come in Jack Frusciante è uscito dal gruppo e in Radiofreccia – dove io, sì, l’ho amato tantissimo, nonostante Ligabue – se le cose gliele fai fare nella sua regione è il più bravo di tutti.
E in Veloce come il vento ha un ritmo e una qualità che staccano nettamente tutti gli altri, ma che bastano a portarsi a casa il film intero.
Loris è un tossico dai denti marci e i modi rozzi, ha una compagna che è messa anche peggio ma che lui coccola come fosse una bambina, con una delicatezza e una dolcezza che solo si usano con l’ultima cosa preziosa che si possiede, eppure a lei rinuncia per stare accanto alla famiglia.
Ed è una specie di bambinone anche lui, che non è capace di vedere i rischi e le conseguenze delle proprie azioni, cosa che lo rende un vincente in gara e un disastro nella vita. Ma in gara lui ha avuto successo, molti anni prima, e ancora c’è nel garage del padre la sua macchina, come una reliquia, e la userà per la gara della morte.

E che macchina guida Stefano Accorsi sullo schermo?
Una Lancia come il pilota realmente esistito cui è ispirato il film?
No.

Guida una Peugeot (anzi due: pure una scassata per andare a fare commissioni) proprio come fa alla televisione nelle pubblicità.
Viene male non pensare male.
Quindi ti ritrovi nello spottone definitivo sull’affidabilità delle automobili del marchio francese, il che è spoiler nello spoiler perché se ti chiedi se riuscirà a uscire vivo dalla gara mortale la risposta sta nel marchio e, dato che non è che le macchine possano arrivare da sole al traguardo come i cavalli al Palio di Siena, allora evidentemente devono essere quelle giuste per vincere e finirla a tarallucci e vino.

Io me la figuro, la conversazione con i dirigenti Peugeot:
– Eh, Stefano, sei con noi da tanti anni ma vorremmo puntare su qualcosa di più moderno…
– Mo no! mo ve lo preparo io lo spottone! C’ho pure un cugino alla Pro Loco che ci fa fare le riprese nelle ztl!

Ma la verità è che, pure se fosse davvero andata così, questo film valeva bene l’inserimento di marchi a scopo commerciale: il cinema italiano ha i nomi nuovi alla regia, fa un uso ottimo delle colonne sonore e ha formato negli anni Novanta una generazione di attori che ora sono al loro meglio e i soldi servono a migliorare la qualità di tutto il resto e le Peugeot, per fortuna, sono perfette per i rally.

Non cerco mai morali, nei film, neppure messaggi conversioni o catarsi, ma mi piacciono le metafore: quelle che attacco io al film e quelle che la pellicola attacca a me.
Però questa era una storia di cose veloci e velocissime; di pensare poco e agire subito; di rischiare; di non porsi il problema della curva che si sta affrontando; di darla per superata, raddrizzata, proiettati già verso la successiva.
Ché tutto il tempo che credi di avere, per passare e ripassare in prima, in seconda e in retromarcia sulle cose, non ce l’ha nessuno; e nessuno perderà tempo a guardare i tuoi sbagli e tanto vale farli subito, anzi che dopo rallentamenti che sono quasi frenate, per ripartire il prima possibile.
Ma questa sembrerebbe una morale, un messaggio, una conversione, una catarsi… per fortuna è un film veloce e non c’è il rischio che questa verità, così lontana dalla mia lentezza di pedone sul marciapiede, possa far altro che farmi svolazzare per un attimo la gonna.

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