la felicità è un sistema complesso

Di Mastandrea che fa Mastandrea e lo fa anche molto bene. Repetita iuvant

La ragione per cui ti fidi e vai a vederne i film è la faccia. Tassativo: sei attirato al cinema come lo sei al suolo da una, effettiva, forza di gravità, in ogni senso. Ha una faccia che dice molto, Valerio Mastandrea, e dice tutte cose che tu vorresti sentire. Quindi, anche quando la locandina è abbastanza brutta, tu fai comunque il biglietto; paghi otto euro per un cinema talmente orrendo che ti fa rivalutare gli uffici postali di periferia; ti siedi su una poltrona più scomoda di quelle dei bus navetta per l’aeroporto; vedi ore di improbabili spot e sei comunque contento perché quella faccia lì, quella di Mastandrea, ti ripagherà di tutto.
In quello sguardo un po’ rassegnato, di chi non è mai stato veramente giovane, tu puoi leggere un mondo. Come in un quadro di van Gogh, ogni tratto è un pensiero agrodolce documentato nel dettaglio. E quello che leggi tu non è mica colpa sua: i puntini li riempi col tuo vissuto, con la tua amarezza, con la tua ironia triste… ma lui non ti scaccia e, come una tela bianca davanti a un pittore olandese, si lascia dipingere, tratto dopo tratto, diventando proiezione di ciò che vorresti da lui.
Il tu ipotetico sono poi io… ma secondo me non son la sola.
Così, nonostante un’orribile locandina, sono andata a vedere La felicità è un sistema complesso.

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Premessa complicata: il nostro protagonista si chiama Enrico e fa un lavoro unico nel suo genere, ovvero si rivolge a incompetenti capitani d’industria perché rinuncino al proprio incarico e mettano nelle mani della società per cui lavora i destini di aziende che altrimenti fallirebbero in pochi mesi. Un lavoro le cui commissioni sono sicuramente altissime ma che lui porta avanti soprattutto con lo scopo di salvare le compagnie dal fallimento e quindi ridurre al minimo gli inevitabili licenziamenti.
L’inizio e la prima ora e venti, devo dire, non sono stati dei più facili: a leggere quanto ho già detto per Suburra, si potrà capire il mio disagio nel veder aprire l’ennesimo film con una festa grottesca… ma a quanto pare ogni festino ha la sua peculiarità e ci tocca adeguarci al trend.
Come fai a convincere uno a matterti in mano l’impero che dirige? Diventi suo amico, ne condividi gli interessi e il tempo libero, lo fai sentire apprezzato e capito, ne alimenti le aspirazioni “esotiche”, quelle che lo distrarranno definitivamente dalla carriera. E così ti capita di andare a ballare tutta la notte a una festa in costume a tema anni 70, rientrando stanco ma con la bella delega firmata.
Un lavoro onesto, sì, uno scopo nobile, pure, che però se lo stanno divorando. Perché non è poco il pelo sullo stomaco che devi avere per stare in mezzo a società malgestite e centinaia di persone che rischiano il posto di lavoro.
«Io non sudo da vent’anni» dice Enrico a un tremante fratello che non ha il coraggio di affrontare i propri problemi. E lo sa il pubblico in sala, lo sanno i due protagonisti sulla scena, che è una cosa davvero triste non essere più capace di provare vergogna per le proprie azioni.
Questo è un film per sudare, per riprendere a sudare, liberarsi, respirare, ossigenarsi.
E per farti capire questo, tutta la prima parte ha un peso strano, quasi di noia che poi noia non è: è apnea, ma lo scopri dopo.
La vita è fatta di molti “trovarsi nel posto giusto al momento giusto”, deal with it! quindi, che la svolta nella vita del protagonista coincida con un incarico lavorativo un po’ diverso dagli altri, arrivato in concomitanza con la comparsa, in casa sua, di una ragazza di Tel Aviv che il fratello gli appioppa non avendo il coraggio di lasciarla, non mi pare affatto assurdo.
Un primo tentativo di respirare, di bilanciare l’umanità che sente sempre più mancargli nel suo lavoro, sta proprio nell’occuparsi di questa ospite improvvisa, così diversa da lui, libera, perfettamente a proprio agio nel dormire per terra, cosa che lui non è in nessun modo capace di capire.
Concentrandosi su di lei, che a un certo punto tenta persino il suicidio, lui riprende quel ruolo positivo che non riconosce più nel suo impiego e tutto si riassume in un piccolo concetto che lei descrive in poche, perfette, parole: «È strano: sentire male ma vedere cose belle». E che cosa c’è di più vero di questa infinita contraddizione, di più vero di quelle cose minuscole che ti distraggono, minuto dopo minuto, dal volertene andare.
Un tratto in più su quella tela, ancora uno, un altro ancora e forse anche questo giorno sarà finito, forse si può arrivare a domani senza che i corvi rovinino il quadro.
Marito e moglie, presidente e vicepresidente di una multinazionale, muoiono in un incidente stradale, lasciando un figlio diciottenne, Filippo, e la sua sorellina, Camilla, quali eredi del proprio impero.
Se normalmente il ruolo di Enrico è quello di far dimettere amministratori delegati incompetenti, svogliati e menefreghisti, tanto più incompetente, svogliato e menefreghista sarà un ragazzo di diciotto anni al primo anno di Filosofia.
Così, inizia il processo di mimesi per avvicinarlo: sui social scopre che ama il rugby e ne impara i rudimenti; apprende che ama un certo rapper e ne utilizza una canzone come suoneria… naturalmente il ponte si getta che è una meraviglia.
«È uno di loro, è solo più giovane» dice un impareggiabile, viscidissimo, Battiston a Mastandrea/Enrico, quando questo mostra degli scrupoli a voler portare avanti l’incarico con un ragazzino.
Ma Filippo si rivela molto più attento del previsto alle sorti dell’impero che ha ereditato e questo mette in crisi Enrico; questo e la presenza della bella ragazza israeliana che, a differenza sua, in maniera del tutto spontanea e disinteressata, lega immediatamente con Camilla.
E i due fratelli sono perfetti nel non essere mai troppo infantili o troppo maturi: puri e ingenui nel desiderare che ciò che hanno ereditato continui a esistere senza far male a nessuno, senza perdere un solo impiegato; teneri nell’aiutarsi a superare un lutto terribile di cui il film non parla, eppure dice tutto mostrando la meravigliosa immagine, nel salotto della loro casa immensa, di due divani come lettini improvvisati, appena accostati come in un bivacco, e mille dolciumi tutti intorno.
Alla greca, le cose brutte succedono fuori dalla scena; all’indiana, sono accompagnate dalla musica: così non c’è morte e non c’è sesso ma una bellissima colonna sonora quando si muore e quando si fa l’amore.
È un film fatto per sudare, dicevo, per tornare a provare qualcosa, per “sentire” a voce alta. Quindi, il nostro Valerio va in bici più di don Matteo e pratica un personale triathlon di partite a rugby e speleologia che, quanto a sudare, altro che la tuta dimagrante in plastica che al mercato negli anni 80 mia nonna comprò.
E sudare non basta, tocca liberarsi, urlare o fare cose che, come urlare, facciano bene, come lanciarsi a bomba in una piscina davanti a manager impettiti o cantare la ricetta della torta di mele al karaoke – con questa cosa bellissima che poi Niccolò Contessa l’ha pure incisa, la ricetta, e fa parte della colonna sonora del film insieme ad altre canzoni de I Cani e dei Rolling Stones tra gli altri – oppure imitare il moonwalk di Michael Jackson: «Vuole andare avanti e invece va indietro», spiega Enrico, dicendo un’altra verità, del film e non solo, che si può ancora sovvertire, questo è un film per sovvertirla.
I film italiani stanno diventando grandi, la fotografia è sempre più accurata, la musica è perfetta e torna a guardare alla scena indipendente – più o meno – come succedeva negli anni 90; quelli in cui Mastandrea, giovane mai giovane, era già un sigillo di garanzia: un esempio su tutti il classicone Tutti giù per terra.

Non lontano da quelle prove giovanili, mi capitò di sentire un’intervista in cui parlava – molto umilmente e più con desiderio che certezza – delle tre M della comicità romana: Manfredi, Montesano e… Mastandrea. Ecco, ci è arrivato con grazia e con i passi giusti – al momento giusto – comprese le ironiche presenze nei video rap e nei cortometraggi; chi mi conosce perdoni se per l’ennesima volta cito e consiglio Basette.
In quest’ultimo film, il suo personaggio, Enrico, posto davanti alla giovane ospite inattesa, mi ha ricordato Mimmo, l’ingenuotto interpretato da Carlo Verdone in Un sacco bello, alle prese col fulmine a ciel sereno chiamato Marisol. Ma poi Valerio è andato oltre ed è diventato Troisi nel suo farfugliare spiegazioni timide. E poi è tornato l’attore tragico di Un giorno perfetto di Ozpetek, amaro, cattivo se necessario, e poi, insomma, Mastandrea ha fatto Mastandrea, quello da cui ci si aspetta sempre una battuta agrodolce.
E lui la fa… e perché non dovrebbe se questo sa fare così bene, senza far male, senza stonare. Forse anche da qualcuno di noi la gente se lo aspetta, che facciamo le battute giuste; forse ci invitano apposta; forse gli risolviamo la serata.
Ed è per questo che ci viene la faccia come un quadro di Van Gogh, ed è per questo che ci specchiamo in un attore romano che, come nessun altro al mondo, è capace di interpretare così bene il ruolo di Valerio Mastandrea.

Vincent_van_Gogh_(1853-1890)_-_Wheat_Field_with_Crows_(1890)