PERFETTO.

Si illudeva, Frank, di poter costruire attimi perfetti. Ne curava ogni particolare, in modo da renderli indimenticabili per sé e per chi incontrava sulla sua strada.

Avvicinati, spostale delicatamente i capelli sul lato del viso, quasi accarezzandola. Avvicinati, respira lentamente, bagnati le labbra.. fermo. Sei troppo vicino, sfiorala. Aspetta che ti baci lei. Perfetto. E’ così che devi fare. Perfetto.

Il bacio non era un apostrofo come si diceva nei cioccolatini, era una sinfonia provata e riprovata, e lui non lasciava niente al caso. Perfetto, sì.  Costruire quei dettagli ed osservarli, attore e spettatore, nel loro compiersi, era un gioco bellissimo. Il suo gioco.  Ma dopo, dopo non gli restava altro che una fioca soddisfazione, come in una mano di poker giocata con astuzia a un tavolo di novellini. Facile, troppo. Scontato rivolgere lo sguardo a quella successiva. Si distraeva alla fine dell’ennesimo giro di valzer a cercare particolari insignificanti che giustificassero quell’insoddisfazione che rimaneva. Con Claire gli capitava spesso di distrarsi a guardare il neo che le stava accanto al labbro e di pensare a quanto fosse disarmonico, oppure di far caso al sapore che gli rimaneva sulle labbra e sentire che non gli apparteneva: troppo diverso, acido. Lo sguardo volava su quei lunghi capelli neri e ricci che le cadevano sulle spalle e lui pensava a quanto stonassero poggiati sulla sua pelle, troppo bianca.

Quella sera Frank decise di uscire con Greta, la figlia del mugnaio, una ragazzina indisponente e altezzosa, ma molto carina. Si trovarono lungo la via di ciottoli che portava fuori dal paese. Nel tardo pomeriggio, perfetto, che il sole era ancora alto ma non bruciava più la pelle come a mezzogiorno. C’erano grandi campi gialli di spighe tutt’intorno, tanti che ci si poteva perdere. Tra i campi di grano Greta iniziò a burlarsi di Frank, ad infilargli le spighe sotto il collo della camicia, spighe antipatiche che gli scendevano fastidiose e puntute fino ai pantaloni. La odiava. Non era come tutte le altre ragazze e non riuscire a gestire quell’incontro lo metteva a disagio. Greta continuava a ridere, a lanciargli le spighe, a correre in mezzo a quel mare giallo. Frank capì che quella ragazza non sarebbe stata sua, che non aveva nessuna intenzione di lasciarlo fare, e ormai stufo iniziò anch’egli a bersagliarla con piccole spighe pungigliose. Corsero per quei campi tutta la sera, ridendo, sputandosi e tirandosi addosso quelle piccole freccette pelose, e Frank si accorse che era da tanto che non si sentiva così libero. E urlarono, e corsero, e si rotolarono giù dalle collinette. Si faceva sera e stremati, sudati e sfiniti dalla corsa e dalle risate si lasciarono cadere all’indietro, per guardare un po’ il cielo prima di tornare al paese. Frank respirava l’aria tiepida con gli occhi chiusi e sentiva il vento che gli seccava il sudore fresco sulla fronte. Greta era stranamente in silenzio, e Frank fece per riaprire gli occhi quando un bacio gli sfiorò le labbra. Allora la vide, che lo guardava, con quel musetto sorridente e dispettoso, e si accorse che fino a quel momento aveva sbagliato tutto. Ma non sapeva più cosa fare, le mani gli tremavano, e sfiorare quella pelle era un brivido. Dal petto il cuore bussava con tonfi pieni e forti. Provò a baciarla di nuovo, e mentre le si avvicinava si accorse che il mondo intorno spariva: non c’erano più particolari a cui dar peso, non c’erano più giochi da condurre. La baciò e stette lì, sospeso, per un secondo, due. Un attimo, Frank riaprì gli occhi e in quel momento si accorse che non c’era mai stato niente di più meraviglioso. Non era il bacio. Era l’istante dopo. Quando le labbra si allontanano quel tanto giusto per poter vedere due occhi anziché uno. Era quell’attimo ciò che stava cercando. Riaprire gli occhi e vedere l’amore, nient’altro. E sentire un sorriso formarsi sulle proprie labbra, inevitabile quasi quanto la voglia di assaggiare di nuovo quella pelle che stava lì, a pochi centimetri dal suo naso.

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