Considerando che l’ho visto agli sgoccioli della sua programmazione nelle sale, a giudicare dalla quantità di persone presenti devo supporre che questo film abbia avuto un successone.
Sala piena di gente sempre più maleducata, in vero: in ritardo sull’orario, rumorosa e lenta nel sistemarsi… senza nessun segno di quella contrizione che io ho pure se arrivo un minuto dopo l’inizio dell’interminabile pubblicità.
A questa gente spetta un girone speciale, all’Inferno, in cui tutti sono sottoposti alla visione in loop di un cartone animato orribile con vulcani che cantano… che in confronto Bugs Bunny che ti dice di spegnere il telefonino ti sembra un film da Oscar.
Comunque ho visto Suburra e non mi ha fatto schifo.
Come le serie americane ci stanno abituando a standard sempre più elevati in Tv, mosche bianche italiane come Sorrentino o Tornatore e – che dolore ammetterlo – un po’ pure il Muccino grasso, stanno alzando il livello delle aspettative del pubblico del grande schermo, dopo il periodo buio degli anni Duemila.
Quindi mi aspettavo una schifezza con attori cani, invece c’era giusto un cane attore. Un pit bull cui hanno fatto fare la parte del molosso cattivo che è come quando dici in questo film ci mettiamo Mastandrea perché così fa Mastandrea e allora crei il luogo comune che il buon Valerio sappia fare solo quello e che i pit bull sappiano solo mangiarsi la gente in dieci morsi dieci come un Cucciolone con brutte barzellette.
Che poi a me Mastandrea che fa Mastandrea piace eh, e comunque nessuno sa farlo come lui. QUINDI. (Però se volete vederlo fare altro guardate Un giorno perfetto che è come guardare, boh, un pit bull che ti porta le pantofole: gli vuoi bene).
Suburra parla delle cose brutte di Roma, con riferimenti che non hanno facce né nomi ma sono chiarissimi a importanti personaggi della nostra politica. Riunisce in quattro giorni del 2011 due eventi significativi come le dimissioni di Silvio Berlusconi – effettivamente occorse il 13 novembre del 2011, ultimo giorno raccontato nel film (no anzi, il film anticipa tutto al 12, ma è uguale) – e l’abdicazione – lo sapete che è un monarca quindi abdica, sì? – del papa tedesco che invece è stata annunciata soltanto nel febbraio del 2013. Ma è fiction, mica errori come li chiamerebbero in un articolo di Wired, quindi darei la cosa per perfettamente accettabile.
Verso l’inizio del film, un festino di gente orribile ti fa subito pensare che abbiano usato le scenografie dismesse da Sorrentino e ti senti anche un po’ in colpa perché forse non son passati manco dieci minuti e stai già cercando una scusa per non farti piacere la pellicola. Infatti, il festino non è sinonimo di Grande bellezza, bensì di Roma brutta, come un tempo lo era la Vespa di Roma bella e non viene da Un regista per essere ripreso da un altro: viene da quella città lì, proprio.
C’è Favino, non ha la barba ed è bellissimo lo stesso e io sarei stata perfettamente a mio agio, nuda, a guardarlo, con buona pace di chi è venuto al cinema con me. Comunque Favino con la barba è meglio, perché mi ricorda un tizio bello che si chiama Enrico: e quando Favino ride, io voglio dormire con Enrico.
Ma se sei un deputato della Repubblica, tiri via la barba, ti imbolsisci e parli come se avessi i ceci in bocca… che per tutto il film mi son chiesta se fosse un riferimento preciso a un politico nostrano in particolare o se il nostro testimonial degli spaghetti avesse semplicemente il mal di denti durante le riprese.
Saviano ci ha raccontato l’epica della Campania: ci ha spiegato come la violenza, oltre ad avere tutte le altre motivazioni “pratiche”, sia alimentata pure da un’operazione di storytelling che trasforma nomi, famiglie in miti eroici da emulare e comunque da onorare.
Questo film fa lo stesso con Roma e quindi in sostanza è un ping pong di azioni e reazioni che coinvolgono sempre più gente in una rete che diventa capillare e colpisce tutti i livelli e tutti i salotti.
Anzi persino parte dal salotto più alto, quello dell’onorevole che si droga e dorme con le escort… che vabbè dici a Indovina chi?, eliminando quelli che si drogano e vanno a puttane butteresti giù persino la signorina col basco verde all’insegna del sasignoramiaalgiornodoggilofannotutti… che non è manco populismo è che, nel ventaglio delle debolezze umane, droga e sesso mi sembrano abbastanza comuni al pescatore come al prete e al farmacista e al senatore.
Quindi questa è la premessa del film: l’escort che tira il calzino dopo aver tirato ben altro.
Quella parte lì mi è molto piaciuta perché si vede un uomo come sono molti uomini: indipendentemente da quanto potere, quindi quanta scorza, abbiano messo insieme nella loro vita, davanti a errori e problemi non capiscono più un tubo e lasciano in mano alle persone meno indicate il latte versato da raccogliere. Da qui parte l’effetto domino di violenze che animano il racconto.
La storia non è tanta e non è certo un film che scoperchia chissà quale segreto vespaio; non è neppure un film che denuncia: è a malapena un film che racconta… che poi le cose, a Roma, vadano davvero in quel modo lì io non lo so proprio ma mica vado al cinema per informarmi (e mi piacerebbe dirvi che non mi informo manco su Wikipedia, ma la “certezza” che Mastandrea non si chiami Mastrandrea l’ho cercata lì).
Una cosa curiosa del film, invece, per tonare a segni iconografici più o meno voluti, è la scelta di inserire tra le suppellettili che arredano l’ufficio del nostro onorevole Favino un bronzetto sardo. Trattasi di statuina che attiene all’archeologia isolana e, in quanto tale, oggetto di vincoli ma, inutile dirlo, un discreto contrabbando, più o meno sommerso, di questi manufatti è sempre esistito. Quindi non ho capito se metterlo lì sia stata una scelta volontaria di mostrare l’arroganza del potere che ha accesso a tutto e ne fa pure bella mostra al di là della legge o se, magari, sia un riferimento a qualche altro politico sardo come a suggerirne un legame, nel film, e un’accusa, nella realtà.
O forse sono sarda e ce ne accorgiamo soltanto io e pochi altri e magari a quello che ha messo insieme gli arredi è solo sembrata buffa la riproduzione vista in un negozio di souvenir.
Ma dubito.
E perché dubito? Per via del più grande difetto di Suburra e cioè la fotografia.
Tutto, tutto, tutto perfetto, arredamenti e inquadrature: mai una cosa veramente in disordine, mai un senso di naturalezza; neppure quando uno deve nascondersi in un capanno di pescatori che, te lo anticipano, è brutto e tu ti aspetti di vedere Provenzano nascosto sotto terra e invece anche quello sembra uscito dal catalogo di Unopiù. Talmente un susseguirsi di belle cartoline, questo film, che davvero pensi a un riciclo dei set di Sorrentino e la violenza delle scene viene addirittura smorzata da questa cura nella disposizione, persino, delle sedie dentro una baracca.
Le scelte più dimesse, in fatto di arredo, sono quelle che riguardano un suggerito papa tedesco, che non vediamo mai in faccia. Lo troviamo in stanze private lugubri e vecchie che più fanno pensare alla pia zia centenaria che ha fatto di casa sua un accatastarsi di altari di legno che non a un re e relative ricchezze.
Ma ha senso – e poi magari quelle stanze sono davvero così, che ne so io – ed è l’altra parte del film che ho apprezzato di più. Come ho avuto modo di dire ieri al mio compagno di visione, se diventi Papa, dentro Roma sei stato per più di qualche gita e come vanno le cose già lo subodori. Eppure, il regista Sollima ha costruito effettivamente una persona a simboleggiare la purezza di spirito – uno straniero, tedesco, che si ritrova catapultato nella realtà romana – che non può gestire, capire, chiudere gli occhi su cose così tragicamente materiali e, anzitempo rispetto a Benedetto, lascia baracca e burattini. Una volta tanto una figura di Papa utile.
Questo post lunghissimo non spiega il titolo ed è colpa mia che sto tergiversando sul momento in cui sembrerò particolarmente lombarda, quando invece sono la più terrona di tutti: io non so se fosse il volume della sala di proiezione di via Ariosto a essere inadeguato o se la qualità audio del film fosse proprio pessima; quello che è certo è che delle parole pronunziate con forte accento romano da molti dei protagonisti io non capivo veramente nulla e allora mi sa che non soltanto gli zingari – ennesimo richiamo alla cronaca romana degli ultimi tempi – andavano sottotitolati.
Ho studiato storia dell’arte per il solo gusto di correggere i refusi sui libri. Cucino e mangio molto. Scrivo, perché parlare ininterrottamente non mi bastava.
Ho anche un blog di cucina coerente, La Luisona e la Madeleine.